Sofferenza e coraggio di una donna e artista
Esiste qualcuno che possa ignorare completamente chi sia Frida Kahlo?
Non credo: chi non conosce quella che può essere oggi considerata come una delle pittrici più famose della storia dell’arte? Probabilmente nessuno, e in effetti questa volta gioco facile, aiutata tra gli altri riferimenti dalla mostra multimediale milanese attualmente in corso (seppure momentaneamente chiusa al pubblico) presso la Fabbrica del Vapore (Frida Kahlo. Il Caos Dentro).
Figlia di un fotografo tedesco e di una messicana di origini ispanico-amerinde, Frida Kahlo nasce nel 1907 affetta da spina bifida, scambiata all’epoca per poliomielite, che aveva già colpito la sorella minore della pittrice. Ma quello che segna in modo irreversibile e drammatico la sua vita già sofferente è l’incidente nel quale rimane coinvolta alla giovane età di diciotto anni mentre sta tornando a casa in autobus e che le provoca numerosissime fratture in tutto il corpo, compresa la colonna vertebrale che si spezza in tre punti.
Conseguenza dell’incidente è la necessità per Frida di sottoporsi a trentadue iniziali operazioni chirurgiche (alle quali seguiranno altri interventi lungo tutta la sua vita) che la immobilizzano a letto per mesi, rinchiusa in un busto di gesso che le impedisce ogni movimento se non quello delle braccia e della testa, situazione che le consente e anzi la incoraggia a dare avvio alla numerosissima produzione artistica – soprattutto di autoritratti – che la accompagna in questo primo periodo e per tutta la vita, prima di lasciare il panorama artistico e culturale messicano e internazionale nel 1954 a causa di un’embolia polmonare, dopo aver perso la gamba destra ormai andata in cancrena.
Non una vita facile, ma nemmeno una vita completamente schiacciata dal dolore e dalla sofferenza fisica e personale (sono famosi i numerosi tradimenti del marito Diego Rivera, dal quale la pittrice divorzia nel 1939 in seguito al tradimento con la sorella Cristina per poi decidere di risposarlo nel 1940).
Stiamo infatti parlando di una donna, oltre che pittrice, dal carattere forte, combattivo, piegata più volte dalla vita ma mai totalmente spezzata. Una donna che ha saputo ella stessa in un certo senso piegare quella condizione tragica alla quale la vita la aveva costretta, in qualcosa di straordinario: un attaccamento fortissimo e quasi ossessivo alla vita stessa, oltre che una rigogliosa produzione artistica, proprio lei che a causa dell’incidente del 1925 era divenuta incapace di generare vita e che aveva trovato nella pittura il proprio strumento creativo, generativo, quello cioè attraverso il quale lasciare al mondo una parte di sé.
Il rapporto con il corpo martoriato, lacerato, continuamente vessato, trova nelle opere di Frida ampio spazio e diventa il principale veicolo di quella sofferenza provata e gettata violentemente, quasi “vomitata”, sulla tela, che diventa a sua volta il mezzo attraverso il quale la pittrice può curare, se non le ferite fisiche, almeno quelle dell’anima.
L’arte al servizio dello spirito, insomma. Un’arte che lenisce, che si fa balsamo prezioso in grado di portare a maturazione e compimento il percorso spirituale dell’artista che dipingendo crea mondi meravigliosi e intricati, specchio di quell’ingarbugliato Io interiore di cui ella è custode.
La pittura autobiografica di Frida la porta a dipingere nel 1944 l’opera che ho inserito in apertura a questo articolo: La colonna spezzata, che la ritrae seminuda e con il busto squarciato, a mostrare la colonna ionica collocata all’interno, chiara allusione allo stato in cui si trovava la sua colonna vertebrale, anch’essa spezzata in diversi punti dal famoso incidente, e che la trasforma nella versione laica del martire cristiano San Sebastiano, laddove la colonna non è più sostegno al quale la figura è legata e che lo sorregge, ma è spostata all’interno del corpo stesso del soggetto, ormai rudere pronto a frantumarsi in mille pezzi, mentre le frecce del santo sono sostituite dai numerosi chiodi che trafiggono il corpo di Frida, il più grande dei quali è collocato sul cuore (allusione alla ferita forse più grande subita dall’artista, quella cioè derivata dalla relazione difficile con il marito Diego e al conseguente divorzio).
Non solo: oltre alla storia, anche il paesaggio partecipa a quella sofferenza gridata a squarciagola eppure taciuta dall’artista, che appare immersa in un ambiente desertico, sterile, lacerato a sua volta da profonde spaccature del terreno che vanno ad allinearsi perfettamente alle condizioni fisiche ed interiori di Frida.
Eppure, il volto dell’artista è immobile. Neanche le lacrime che sgorgano copiose dagli occhi e rigano le guance della pittrice riescono a mutare l’espressione impassibile e lo sguardo di ghiaccio che ella ci rivolge, quasi non stesse provando il benché minimo dolore. È uno sguardo vitreo, “metallico”, come anche sono di metallo le cinghie che le stringono il busto, il quale dà l’impressione di dover esplodere, senza l’aiuto di quell’infernale dispositivo medico (ma che dà l’idea quasi di uno strumento di tortura), in mille pezzi.
Vi siete mai sentiti come Frida? Spezzati in mille bricioline e magari confusi, privati di quella mappa che fino ad un secondo prima vi aveva guidati con sicurezza lungo il percorso della vita, dritti verso quelli che pensavate essere i vostri obiettivi?
Dice Frida stessa: “Non sono malata. Sono rotta. Ma sono felice, fintanto che potrò dipingere”.
Ecco allora che questo articolo vorrebbe essere per tutti voi, piegati, vessati per un motivo o per l’altro dalla vita, un invito a mantenere come Frida lo sguardo fisso su quello che davvero vi rende felici e in cui avete la certezza di potervi rifugiare nei momenti più bui.
Spezzati ma felici perché fedeli a se stessi, pieni e saldi.
Per Frida era la pittura, e per voi?
Mari
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