Il tempo immobile dei nonluoghi e la solitudine della modernità liquida
“L’idea che si percepisce guardando quelle immagini evoca un sentimento di solitudine, di non comunicazione. Corpi e visi di persone tristi e silenziose, che indugiano nell’immobilità del tempo” (Lucia Aquino)
Scrive così nel 2004 la storica dell’arte Lucia Aquino, riferendosi alle opere del pittore statunitense Edward Hopper, spesso associato ora alla corrente impressionista per via dei tagli fotografici utilizzati, ora alla pittura metafisica di Giorgio de Chirico, con la quale i dipinti di Hopper condividono il senso di solitudine e l’atmosfera immobile, senza tempo nella quale le scene ritratte sono inserite.
Eppure ciò che rende lo stile di Hopper immediatamente riconoscibile e personalissimo è la combinazione di un forte realismo, che individua ed assume gli elementi della scena americana contemporanea per operare su di essi un fine lavoro di sintesi, con la sensazione di inquietudine ed irrealtà di cui le sue opere sono intrise.
Se, come affermava Nietzsche, l’arte nasce dall’unione di due elementi, ovvero un grande realismo ed una grande irrealtà, con Hopper siamo perfettamente in linea con il pensiero del filosofo tedesco.
Da un lato, il realismo dell’artista americano è evidente nella scelta dei soggetti, dall’altro, i suoi quadri ci descrivono scenari disabitati e silenziosi, avvolti da una luce fredda, tagliente, geometrica che colpisce i pochi soggetti presenti all’interno della composizione proiettandoli in un tempo immobile, quasi eterno, assoluto.
Il realismo di Hopper prende forma nei binari della ferrovia, nelle case coloniche di legno bianco, nei fari, nelle camere d’albergo e nei distributori di benzina ritratti dall’artista, che descrivono un’America contemporanea fuori moda, lontana dall’immagine di un progresso economico fatto di grattacieli e automobili e abitata invece da oggetti comuni inseriti all’interno di ambienti familiari che tuttavia non riescono e non vogliono trasmettere un senso di serena e rassicurante intimità ma, al contrario, rimandano ad un’idea di solitudine.
Come in un tableau vivant, i personaggi di Hopper sono fermi e silenziosi, non si muovono né comunicano tra di loro.
Hopper dipinge la solitudine dei luoghi solitari ma, ancora di più, dei luoghi che normalmente dovrebbero essere affollati, in particolare di quelli che l’antropologo e filosofo francese Marc Augé definisce “nonluoghi”: autostrade, aeroporti, stazioni di servizio, sale d’attesa, mezzi di trasporto, ascensori e centri commerciali sono tutti spazi anonimi, non identitari, in cui viene completamente a mancare ogni tipo di relazione tra i soggetti che si trovano a dover condividere momentaneamente quegli stessi ambienti.
All’interno dei nonluoghi l’individuo, privato delle proprie caratteristiche e dei ruoli personali che egli riveste normalmente nell’interazione con gli altri, continua ad esistere unicamente come cliente o utente, cioè fruitore di merci e servizi, isolato in un individualismo che è frutto – citando il sociologo e filosofo polacco Zygmunt Bauman – della società liquida di cui è figlio.
In una società che muta incessantemente ed a ritmi rapidissimi, l’individuo perde ogni punto di riferimento necessario ad orientarsi all’interno della propria già precaria e fragile esistenza, ed è travolto da una sensazione di solitudine alla quale è spinto a porre rimedio con il continuo acquisto di prodotti in una sorta di bulimia consumistica.
Nelle opere di Hopper, le strade di Manhattan e le pompe di benzina si svuotano di ogni possibile mezzo di trasporto, i negozi sono chiusi, le case hanno le tende alle finestre abbassate, sulle rotaie delle stazioni ferroviarie non corre nessun treno e anche i teatri, normalmente gremiti di spettatori, sono deserti.
Eppure la solitudine dei luoghi ritratti da Hopper e il suo legame con il discorso augeiano sui nonluoghi, in cui le persone transitano senza sosta ma senza mai abitarvi, è solo uno degli aspetti dell’universo pittorico dell’artista: come Hopper stesso ha affermato, “Si parla troppo di solitudine”, dimenticando che la prospettiva intimista non è altro che il riflesso dell’interesse dell’artista per l’ontologia più che per la psicologia dei personaggi.
Quello che infatti muove Hopper alla creazione artistica non è il tentativo di comprendere e trasporre sulla tela la psicologia dei soggetti dipinti (non a caso ritratti spesso in lontananza e in modo sommario, senza particolare attenzione alle espressioni dei volti, resi in modo sintetico), ma quello di rappresentare i fondamenti della natura e dell’uomo: lo sguardo che Hopper sceglie di adottare, infatti, va oltre gli elementi superflui e mutevoli della vita reale di tutti i giorni per cogliere gli aspetti fondamentali dell’essere.
In questo senso, le scene descritte all’interno delle sue opere appaiono come calate in un eterno presente.
Ma cosa succede quando non riusciamo ad individuare quegli stessi fondamenti sui quali abbiamo costruito la nostra intera esistenza e avvertiamo una sensazione di straniamento?
Più che per la mancanza di compagnia, i personaggi di Hopper soffrono per la mancanza di un senso da dare alla realtà e per la condizione di esilio da sé che li costringe ad una fissità senza passato né futuro.
Così la stazione della Mobilgas da lui dipinta nel 1940 perde ogni riferimento alla realtà contemporanea e diventa icona cruda e dolorosa di un progresso economico genitore di un uomo in grado di inventare l’automobile ma che non sa né da dove venga né dove porti la strada che percorre, che non a caso nel dipinto di Hopper appare metaforicamente nascosta tra gli alberi in lontananza.
Nonostante l’influenza della pittura impressionista, con cui l’artista viene a contatto durante i suoi viaggi a Parigi e che lo porta a schiarire la propria tavolozza e ad intridere le proprie opere di una luminosità nuova, la ricerca metafisica che caratterizza l’intera produzione di Hopper lo spinge a scegliere temi e soggetti originali che si discostano da quelli impressionisti, legati soprattutto al mondo naturale.
Diversamente dagli impressionisti, Hopper non sfalda le forme ma preferisce soggetti volumetrici che possano suggerire un senso di fissità, di eterna e identica ripetizione di sé.
La figura umana diventa sempre più rara per lasciare spazio alle architetture che compongono la scena: case, edifici, persino gli scogli sulla costa sono blocchi di materia, corpi solidi con un proprio peso e volume.
Nella sua continua ricerca di sintesi, scompare ogni elemento superfluo, pur mantenendo una visione ed una conseguente resa pittorica aderenti alla realtà.
Nelle opere tarde, gli elementi che compongono la scena sono resi in modo sempre più geometrico, con un’attenzione particolare alla luce (artificiale o naturale) che inonda gli ambienti e si riflette su oggetti e corpi, suggerendo ancora una volta la tensione metafisica e la ricerca di infinito che caratterizzano i suoi dipinti.
In Summer evening (in basso a sinistra) la veranda illuminata dalla luce artificiale diventa la vera protagonista della tela, quasi come se i due personaggi ritratti non fossero altro che una scusa per dipingere il forte contrasto tra il bianco freddo del legno illuminato dalla lampada e il buio dell’esterno, che dà corpo agli oggetti facendo apparire la luce della veranda come un solido geometrico con una propria forma definita.
Similmente, in A woman in the sun (a destra) la figura della moglie Josephine è inserita all’interno di un rettangolo di luce stretto e lungo che il sole proietta sul pavimento della stanza, privata di ogni elemento non necessario, come anche il paesaggio che si intravede fuori dalla finestra.
In una situazione tanto sospesa ed incerta come quella che stiamo vivendo a livello globale ormai da più di un anno, i dipinti di Hopper appaiono quanto mai attuali nel loro farsi specchio della sensazione di straniamento dell’uomo contemporaneo, obbligato a fare i conti con una situazione più grande di lui.
Come nelle opere del pittore statunitense, se anche voi in quest’ultimo anno vi siete sentiti almeno una volta immobili, incapaci di individuare uno scopo da dare alla vostra esistenza e di agire di conseguenza, carichi di quell’entusiasmo che fino ad un attimo prima aveva guidato ogni vostra scelta di vita, il mio invito a tutti voi e a me stessa è quello di ispirarci al lavoro di sintesi di Hopper eliminando come nei suoi dipinti ogni elemento superfluo intorno a noi per ritrovare nuovamente il fondamento della nostra stessa esistenza e continuare ad essere fedeli a noi stessi nell’incessante procedere di quel groviglio bellissimo che è la vita.
Mari
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